riporto l’articolo da corriere.it
commenterò a breve sul delicato argomento
Il 62% dei decessi nelle rianimazioni italiane origina da un intervento attivo del medico definito desistenza terapeutica, cioè uno stop alle cure che potrebbero essere considerate un accanimento terapeutico e che non ha nulla a che vedere con l’eutanasia.
Lo rivela uno studio presentato lo scorso anno e condotto in 84 unità di rianimazione italiane dall’epidemiologo Guido Bertolini, dell’istituto Mario Negri di Milano, che fa luce sulle scelte che quotidianamente vengono fatte e che oggi sono al centro del dibattito per la vicenda di Eluana Englaro e per l’attesa legge sul testamento biologico. L’intervento del rianimatore si traduce nella sospensione del sostegno alle funzioni vitali o nella mancata attivazione di ulteriori aiuto, come la dialisi, ma in ogni caso, avevano tenuto a sottolineare Bertolini non si tratta di eutanasia.
Nello studio sono state analizzate 3800 schede di pazienti deceduti nelle terapie intensive ed è stato eseguito un approfondimento su 6 unità di rianimazione in cui sono state indagate le dinamiche decisioni che hanno portato i medici alla decisione di interrompere le cure. Nella quasi totalità dei casi riferiti, secondo lo studio, la decisione di interrompere la cura avviene in pieno accordo con la famiglia del paziente e, in rarissimi casi, con il paziente stesso. Rari i casi in cui il medico valuta autonomamente di non continuare nelle cure prestate perché questo non cambierebbe l’evoluzione naturale della malattia. Secondo le statistiche italiane nelle rianimazioni muore il 20% dei pazienti ricoverati.