ne ho parlato tante volte, in passato.
Ne ha scritto, di recente, Gaddo sul suo blog unradiologo.net: una disamina della spinosa materia, da leggere con grande attenzione.
Cito (le conclusioni) Gli errori, nel nostro mestiere, sembrano essere inevitabili. Tutti odiamo sbagliare e tutti proviamo vergogna e paura quando gli altri ci sgamano: vergogna dell’errore in sé, paura di perdere prestigio, di bruciarci una promozione, che il paziente ci reputi degli emeriti somari. Questo atteggiamento ci porta a nascondere non solo i nostri errori ma anche quelli dei colleghi: mentre l’errore è una risorsa preziosissima, ci permette di crescere, stimola il confronto, va condiviso con i colleghi e non spazzato sotto il tappeto del salotto.
Ne parla anche, sempre con gran finezza intellettuale, il Prof Atul Gawande.
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D'accordo sul fatto che l'errore può essere utile per migliorare, se ammesso e valutato. Avevo preso l'abitudine di ristampare le visite con qualche errore (diagnostico o di prescrizione) che a un controllo successivo si era rivelato significativo, ma cancellando la firma dell'autore, per discuterne con i colleghi. L'idea era: cerchiamo di capire che cosa non andava in questo referto (senza puntare il dito contro l'autore), e come me possiamo evitare di ripetere l'errore in futuro. Tentativo fallito: ogno volta che ci provo, il/la collega si inalbera e mette le mani avanti (avendo la coda di paglia, credo): "Tutti possono sbagliare, anche tu lo fai, solo che noi non veniamo a dirtelo!". Così si resta sempre nel vago (quanto e quando avrò sbagliato? Boh!) e ci si trincera dietro l'alibi "Così fan tutti". E gli errori dei miei colleghi si ripetono. I miei (quando me ne accorgo) mi servono a stare più attenta
e brava !
Così provo a pensare anch'io . . .
Mi rendo però conto che questa attenzione, esaltata dall'aver notato la defaillance, tende poi a scemare, anche a causa della condizioni di lavoro che ti stimolano a far sempre di più in sempre meno tempo . . .
Se te le sei perse ti consiglio di leggere le riflessioni di Atul Gawande (come già suggerisco nell'articolo) che ci stimolano, però, a sviluppare un sistema che prende coscienza del problema e cerca di affrontarlo pragmaticamente (chè a nessuno fa piacere vedere, nero su bianco, il proprio errore: io stesso in primis)