Unità di gestione del rischio clinico istituite, ma in diverse strutture sanitarie ancora non operative. Risk manager troppo spesso un miraggio, soprattutto nelle regioni del Sud. Gestione dei dati e delle cartelle cliniche ancora su carta in gran parte degli ospedali, con differenze significative nei corsi di formazione ad hoc agli operatori fra strutture pubbliche e private. Il quadro emerso dall’indagine sulla gestione del rischio clinico nelle strutture ospedaliere pubbliche e private della Penisola, mostra un’Italia a più velocità. Con note positive, ma ancora molto da fare sul piano della prevenzione degli errori medici e degli incidenti. L’indagine è stata commissionata da Cineas, consorzio universitario specializzato nella prevenzione e gestione dei rischi. Un lavoro condotto attraverso 300 interviste ai direttori sanitari, risk manager, direttori di presidio e responsabili di uffici qualità di 44 Asl che hanno la gestione diretta di alcune strutture ospedaliere, e 256 a strutture ospedaliere (con oltre 25 letti) in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Calabria e Sicilia.
Il 79% delle strutture ha già provveduto alla creazione di un’apposita unità che si occupi della gestione del rischio clinico, ma il 12% non è ancora operativa. Nel 33% dei casi intervistati, quindi, non è attiva una unità per la gestione del rischio. Un po’ a sorpresa le realtà più virtuose sono le aziende ospedaliere e, in generale, le strutture pubbliche. Queste ultime si occupano di gestione dei rischi nell’84% dei casi, contro il 73% delle strutture private. Nella maggior parte degli ospedali pubblici e privati, l’attività dell’unità di gestione del rischio clinico è coordinata dalla direzione sanitaria. Gran parte dei direttori sanitari intervistati afferma che, all’interno della propria struttura, sono state costituite le commissioni per il controllo delle infezioni ospedaliere (91% in Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna, 85% in Toscana e Lazio, e 79% in Campania, Calabria e Sicilia). Ma i numeri variano, a seconda dell’attivazione o meno di un’unità di gestione del rischio clinico: l’89% degli ospedali che al loro interno hanno un’unità di gestione del rischio ha costituito un’apposita commissione di controllo delle infezioni, contro un 68% delle strutture che, sprovviste dell’attività di gestione del rischio sanitario, non ha istituito alcuna commissione ad hoc. La metà circa delle strutture intervistate, poi, ha nominato un Risk Manager. Lo hanno fatto, in particolare, le Asl (76%) che hanno la gestione diretta di alcuni ospedali, le strutture pubbliche (56%) con un maggior numero di dipendenti e quelle di più recente costituzione. Dal punto di vista geografico, primeggiano le regioni centrali (Toscana e Lazio) con il 64% di strutture ‘dotate’ di Risk Manager, seguite dal Nord (Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna) con il 53% e infine il Sud (Campania, Calabria e Sicilia) con il 39% dei casi. Inoltre l’80% delle strutture è favorevole al fatto che la figura dell’hospital Risk Manager sia imposta per legge a tutti gli ospedali italiani, e all’istituzione di un sistema di certificazione per monitorare il rispetto delle procedure e la qualità dei servizi offerti ai pazienti. Ruolo ‘chiave’ per ridurre le fonti di errore spetta alla gestione informatizzata della cartella clinica. Ma se da una parte, tre quarti delle strutture ha predisposto un’unità ad hoc per la gestione del rischio clinico, dall’altra il 79% sostiene di operare ancora attraverso un sistema di raccolta e archiviazione dei dati clinici di tipo cartaceo. Solo il 6% circa dichiara di aver informatizzato la cartella clinica in tutti i reparti. Tre quarti delle strutture che attualmente posseggono una gestione cartacea, dichiara di aver valutato il passaggio alla cartella informatizzata e che, presumibilmente, implementerà il nuovo sistema entro 11 o 12 mesi. E’ il caso soprattutto delle Asl che gestiscono strutture ospedaliere (76% contro 66% delle strutture ospedaliere) e del settore pubblico (72% degli ospedali pubblici contro il 62% degli ospedali privati). Un altro dato che mette in luce una volontà di dotarsi di strumenti adeguati, ancora frenata da ostacoli organizzativi, è la risposta fornita alla domanda sull’esistenza di una procedura per la gestione degli incidenti potenziali o Near Miss (quelli che non si verificano per mera casualità, ad esempio, la rilevazione di un errore di prescrizione di un farmaco prima che sia somministrato al paziente). Il 69% delle strutture dichiara di possederla, ma l’8% afferma di applicarla con discontinuità. Sono le strutture di più recente costituzione e le aziende private a evidenziare maggiormente la presenza di questo tipo di procedura. Esiste, inoltre, un legame fra comportamenti virtuosi: la gestione degli incidenti potenziali è correlata, infatti, alla presenza di un’unità di gestione del rischio clinico, alla presenza di un Hospital risk manager all’interno delle strutture e alla gestione informatizzata della cartella clinica. Significativa la discrepanza tra le regioni del Centro (Toscana e Lazio) e del Nord (Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) rispetto al Sud (Campania, Calabria e Sicilia). Qui la procedura per la gestione degli incidenti potenziali esiste nel 54% delle strutture, contro un 81% delle strutture laziali e toscane e un 73% di quelle piemontesi, lombarde, venete e dell’Emilia Romagna. Dall’indagine emerge anche che il 12% degli ospedali esaminati non ha il certificato di prevenzione incendi, e un ulteriore 12% non è a conoscenza dell’esistenza o meno del certificato nella propria struttura. Inoltre l’80% del personale ha partecipato a corsi di formazione in materia di gestione del rischio, la metà circa nell’ultimo anno. L’indagine evidenzia differenze significative – in fatto di corsi di formazione – fra le strutture pubbliche e private: queste ultime risultano meno attive nel promuoverli. Infine, analizzando le risposte del campione di dirigenti intervistato, emerge che secondo la maggioranza le spese per formare professionalmente esperti di rischi ospedalieri, e ridurre le possibilità di errore, dovrebbero essere sostenute dalle Regioni.