e non solo uno stress
Leggo la notizia (Adnkronos Salute, a seguire) e mi ritorna in mente i ragionamenti – tra colleghi – fatti ad una pizza di fine anno: la preoccupazione, da parte dei miei amici, di trovarsi in situazioni pesanti a causa dell’attività professionale.
Stiamo precipitando, lentamente e pertanto spesso inavvertitamente, in un gorgo che non ci porterà da nessuna parte: di certo non a migliorar il livello qualitativo dell’attività professionale.
Demagogicamente si preferisce lasciar inaffrontato il problema che sta minando, dalle basi, il sistema sanitario nazionale (e non solo in Italia: qui si parla di USA, che fanno da apripista).
Ore e ore passate ad aspettare l’esito delle indagini su accuse di malpractice. Per un medico, quest’attesa si traduce in media in una fetta pari a più del 10% (circa l’11%) della propria carriera in fumo. E alcuni passeranno quasi un terzo della loro carriera in camice bianco a fare i conti con dei ‘sinistri’ aperti. E’ quanto emerge da uno studio Usa pubblicato su Health Affairs. La ricerca mostra che il periodo di tempo necessario a risolvere un’accusa di malpractice rappresenta uno stress per pazienti, medici e sistema legale. E se in molti casi il procedimento si risolve con un nulla di fatto, i mesi e gli anni passati con un’azione legale pendente possono essere addirittura più stressanti per i camici bianchi rispetto al costo economico finale della presunta malpractice. “Crediamo che il tempo necessario per risolvere le cause di questo tipo possa essere un motivo importante per le proteste dei medici e la loro richiesta di una riforma sulla malpractice, e che ogni tentativo” in questo senso “avrà bisogno di prendere in esame la velocità con cui vengono risolti i casi”, spiega Anupam Jena dell’Harvard Medical School (Usa). Utilizzando un database di una grande agenzia nazionale di assicurazione sanitaria, Jena insieme a Seth Seabury, economista della Rand Corporation, ha analizzato la quantità di tempo passata dai medici con sinistri aperti. Le denunce sono state ripartite per specialità, gravità e per la presenza o meno di una dimostrata negligenza (alla fine del procedimento). Fra i fattori che contribuiscono alla quantità di tempo che un medico trascorre con azioni pendenti sul capo, dicono i ricercatori, c’e’ la lunghezza del procedimento legale. La tipica causa per malasanità in America non è depositata fino a quasi due anni dopo che l’incidente si è verificato, e non si risolve – almeno negli Usa – fino a 43 mesi dopo quella data. Inoltre molte di queste case finiscono in nulla: i medici passano fino al 70% del tempo ad attendere una sentenza che non comporta un pagamento. Inoltre, almeno negli Usa, i più ‘bersagliati’ dalle accuse di malpractice, sempre in termini di anni di carriera spesi, sono i neurochirurghi, con circa 131 mesi (il 27% della durata della loro carriera) a combattere con un’accusa di malasanità sul capo. Dall’altro lato della classifica troviamo gli psichiatri, con quasi 16 mesi di carriera (poco più del 3%). I ricercatori hanno notato che lo stress legato a lunghe e numerose cause può anche portare al ricorso massiccio alla medicina difensiva, facendo impennare così la spesa per le cure. Nei casi in cui si verifica un episodio di malpractice, auspicano gli studiosi, la compensazione deve essere equa e rapida. E nei casi in cui non vi è alcun fondamento alle accuse, il caso deve essere chiuso il prima possibile, per evitare di sprecare risorse significative. “La nostra sensazione – conclude Seabury – è che probabilmente stiamo spendendo troppo tempo per risolvere molti di questi casi, e che la lunga durata dei procedimenti abbia portato a costi inattesi per pazienti, medici e per il sistema sanitario nel suo complesso”.