riflessioni post ECM: la incrementale sofisticazione delle tecniche di diagnostica non invasiva comporta un inevitabile aggravio di lavoro, per il medico che deve interpretare i (molto più corposi) dati disponibili ai fini della diagnosi clinica.
Ne ragionavamo già anni addietro, tra colleghi: l’esplosione, incontrollabile, della potenza di calcolo permette di avere strumentazioni sempre più sofisticate che producono sempre più dati ma c’è un ovvio corollario a questo, spettacolare, miglioramento.
Anche se il mantra è che le nuove TAC, sempre più potenti, sono anche molto più veloci a creare moltissimi più dati (quindi con un apparecchio moderno puoi, teoricamente, fare molti più esami rispetto al passato) poi c’è l’inevitabile collo di bottiglia: il personale medico specialistico, il radiologo nello specifico, che deve interpretare questi dati è sempre lo stesso di vent’anni fa (se non è andato in pensione, nel frattempo) ed il tempo necessario ad analizzare, processare (ovvero fette di corpo umano, la rappresentazione tomografica dell’anatomia o patologia umana, sempre più precisa), capire ed emettere una diagnosi aumenta proporzionalmente all’incremento della quantità di dati da valutare.
Poi, chissà, il Dott. Watson ci salverà (oppure no?)….