ti sfiora, ripetutamente ed in modi diversi, quando fai questo mestiere.
Vengono a visita tre persone, il paziente è un signore ultraottantenne accompagnato dalla moglie e dal figlio, giovane.
Intuisco (mi sbaglierò, ma credo proprio di no) che non sa nulla della sua condizione, l’atteggiamento è quello di chi non si cura di sapere, i familiari evidentemente sanno: dalla documentazione – non esaustiva – e dal colloquio, un pò ermetico, con la moglie capisco che si è deciso – i parenti, hanno deciso – di lasciar andare la malattia (tumore già metastatizzato, l’oncologo lo tratta con anti-infiammatorio standard; nè chemio nè radioterapia).
Ti trovi a far un esame palesemente inutile (se si è deciso di non aggredire la malattia qual’è il senso di controllarne l’evoluzione finchè il paziente è autonomo e tutto sommato sta bene?) ed a riflettere, come già accaduto in passato, sul fatto che oggi ci siamo e domani moriremo o – per citare un grande intellettuale dello scorso secolo – che tutto ciò che facciamo nella vita, anche l’amore, lo facciamo sul treno espresso in viaggio verso la morte . . .
Cotidie morimur, è vero. Ma è anche vero che cotidie vivimus, in qualche modo. E forse quel signore finge di non sapere, pur sapendo. E si gode da volontario incosciente gli ultimi metri del suo viaggio.
e per cui ti devo rimandare alla stupenda poesia di Eduardo dint’ a butteglia
🙂