stamattina passeggiata esplorativa al festival della creatività ed alla manifestazione nella manifestazione degustibooks; c’ho trovato oltre ai blogger del raduno organizzato da Leonardo Romanelli alcuni amici, ricercatori del CNR, che presentavano in alcuni stand la loro protesta contro l’attentato alla creatività rappresentato dalla la riforma di cui si sta tanto parlando ultimamente.
Riporto a seguire un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature sui provvedimenti del governo riguardanti la ricerca e l’università
Nel tentativo di accelerare la sua arrancante economia, il governo italiano si concentra su obiettivi facili, ma sconsiderati. È un periodo buio e arrabbiato per i ricercatori in Italia, esposti ad un governo che mette in atto la sua strana filosofia per il taglio dei costi. La settimana scorsa, decine di migliaia di ricercatori sono scesi in strada per manifestare la loro opposizione ad una proposta di legge volta a frenare la spesa pubblica. Se passa, come previsto, la legge provocherebbe il licenziamento di quasi 2000 ricercatori precari, che costituiscono l’ossatura degli istituti di ricerca italiani perennemente a corto di personale – e metà di essi sono già stati selezionati per posizioni a tempo indeterminato.
Proprio durante la manifestazione dei ricercatori, il governo di centro-destra di Silvio Berlusconi, che è tornato al governo lo scorso maggio, ha deciso che i fondi di università e ricerca potrebbero essere usati per aiutare le banche e gli istituti di credito italiani. Questa non è la prima volta che Berlusconi ha bersagliato le università. Ad agosto ha firmato un decreto che tagliava i fondi universitari del 10% e ha permesso di coprire solo una posiziona accademica vuota su cinque. Ha anche permesso alle università di trasformarsi in fondazioni private per ottenere introiti aggiuntivi. Dato il clima attuale, i rettori universitari ritengono che l’ultimo passo sarà usato per giustificare ulteriori tagli ai fondi e che alla fine li costringerà a cancellare i corsi che non hanno grande valore commerciale, come gli studi classici o addirittura le scienze di base. La notizia è arrivata all’inizio delle vacanze estive, ma le conseguenze sono state comprese pienamente solo ora – troppo tardi, visto che il decreto sta per essere trasformato in legge.
Nel frattempo, il Ministro per l’educazione, l’università e la ricerca, Mariastella Gelmini, non si è espressa in merito a tutte le questioni relative al suo ministero tranne quella sulle scuole secondarie e ha permesso che decisioni governative consistenti e distruttive fossero eseguite senza fare alcuna obiezione. Ha rifiutato di incontrare i ricercatori e gli accademici per ascoltare le loro preoccupazioni o per spiegare loro le direttive che sembrano richiedere il loro sacrificio. Inoltre non ha neppure delegato un sottosegretario che si occupi di tali questioni al suo posto.
Le organizzazioni scientifiche colpite dalla legge sono tuttavia state ricevute dall’ideatore della legge, Renato Brunetta, Ministro della pubblica amministrazione e innovazione. Brunetta ritiene che si possa fare ben poco per fermare o modificare la legge, anche se è ancora in discussione nei vari comitati e deve ancora essere votata in entrambe le camere. In un’intervista ad un quotidiano, Brunetta ha paragonato i ricercatori ai “capitani di ventura” [sic N.d.T.], mercenari avventurieri del rinascimento, dicendo che dar loro un lavoro permanente equivarrebbe quasi ad ucciderli. Ciò mistifica un problema che i ricercatori gli avevano spiegato: che la ricerca di base di un paese richiede un adeguato rapporto tra il personale permanente e quello precario, con i ricercatori precari (per lo più post-dottorati) che si spostano tra laboratori di ricerca permanenti, stabili e ben equipaggiati. In Italia, come hanno tentato di spiegare a Brunetta, questo rapporto è tutt’altro che adeguato.
Il governo Berlusconi può anche ritenere che siano necessarie delle misure finanziare severe, ma i suoi attacchi alla ricerca di base italiana sono avventati e poco lungimiranti. Il governo ha trattato la ricerca semplicemente come un’altra spesa da tagliare, quando invece dovrebbe essere considerata un investimento per costruire l’economia del sapere del ventunesimo secolo. In effetti l’Italia ha già sposato questo concetto aderendo alla Strategia di Lisbona 2000 dell’Unione Europea, in cui gli stati membri hanno promesso di aumentare i fondi di ricerca e sviluppo (R&D) fino al 3% del loro prodotto interno lordo. L’Italia, un paese del G8, ha una delle spese in R&D più basse del gruppo, essendo appena dell’1.1%, meno della metà di quanto spendono nazioni comparabili come la Francia e la Germania.
Il governo non deve considerare solo i guadagni a breve termine attuati attraverso un sistema di decreti facilitato da ministri compiacenti. Se vuole preparare un futuro realistico per l’italia, come dovrebbe, il governo non dovrebbe riferirsi pigramente al passato, ma capire come funziona la ricerca in Europa oggi.