I pazienti con fibrillazione atriale sono in continuo aumento, soprattutto a causa dall’incremento dell’età media della popolazione. La prevalenza della fibrillazione aumenta, infatti, con l’età fino ad oltre il 9% al di sopra degli 80 anni. Il problema che assilla il clinico davanti ad un nuovo caso di fibrillazione è di prevenire la complicanza più temibile, ossia l’ictus.
Molti studi hanno evidenziato come l’uso degli antiaggreganti sia del tutto insufficiente, mentre la terapia con gli anticoagulanti orali è ormai il gold standard.
Per molti anni l’unica opzione terapeutica è stata rappresentata dal Warfarin e dall’Acenocumarolo, con le più che conosciute difficoltà tecniche dovute al dosaggio che deve essere personalizzato, obbligando quindi il paziente a controlli più o meno ravvicinati. Altro limite era dato dall’interazione di tali farmaci con vari alimenti che potevano ridurne o aumentarne l’effetto.
Il quadro è completamente cambiato nel 2009 con la pubblicazione dello studio Rely che ha dimostrato come il Dabigatran, inibitore diretto della trombina, risulti non inferiore al Warfarin nella prevenzione degli eventi tromboembolici.
Negli anni successivi altre molecole hanno dimostrato anch’esse un effetto quantomeno sovrapponibile al Warfarin: il Rivaroxaban, l’Apixaban e l’Edoxaban, tutti inibitori del fattore X attivato.
Uno dei vantaggi di tali farmaci è che il dosaggio è standard in tutti i pazienti: la dose è normalizzata per ogni molecola. Il limite maggiore è dato dal fatto che tutti questi farmaci vengono eliminati prevalentemente per via renale e che quindi non possono essere utilizzati o utilizzati con estrema cautela nei pazienti con insufficienza renale.
Ma la novità è solo questa?
Dobbiamo consigliare i nuovi anticoagulanti orali (NAO o NOAC, secondo l’abbreviazione anglofona di new oral anti-coagulants) solo per evitare ai pazienti prelievi di sangue ravvicinati?
Questo forse di per sé non giustificherebbe il loro costo che è nettamente superiore ai vecchi anticoagulanti. L’elemento in più che ne fa oggi uno strumento indispensabile è invece la netta riduzione degli eventi emorragici maggiori. Ormai sappiamo quale è il rischio emorragico a cui esponiamo i nostri pazienti in terapia con Warfarin, quantizzabile in circa 1,8% l’anno.
I dati di vita reale che abbiamo a disposizione oggi sul rischio dei NAO in termini di eventi emorragici ci dimostrano come questo sia nettamente inferiore attestandosi tra lo 0,14 e lo 0,68 % per le varie molecole.
Tutto questo per ribadire come i NAO non sono il nuovo Warfarin che non deve essere controllato ma rappresentano uno strumento efficace e sicuro che permette di proteggere un numero sempre maggiore di nostri pazienti contro quello spauracchio che si chiama ictus, senza esporli in modo significativo ad eventi emorragici maggiori.
Ringrazio, per questo contributo, il Dott Simone Mininni Specialista in Cardiologia